mercoledì 24 ottobre 2012

ILVA TARANTO / Gli invisivbili



Sulle rotaie interne all’Ilva scorrono treni che portano enormi chiocciole d’acciaio: la produzione. E tutti noi sappiamo che chissà in quale modo abbiamo contribuito a creare quelle lamiere lucenti. Abbiamo orgoglio di questo. Chissà se è giusto, però. Ne parlerò ad Antonio, lui queste cose le sa di certo.”
Mi piace iniziare con queste parole il racconto di “Invisibili - Vivere e morire all'Ilva di Taranto”, un libro snello di 111 pagine in tutto, scritto a due mani da Fulvio Colucci e Giuse Alemanno. Il primo, giornalista dell’edizione tarantina de La Gazzetta del Mezzogiorno e il secondo scrittore e operaio metalmeccanico presso lo stabilimento tarantino del gruppo Riva. La particolarità di questo racconto è che a tratti in forma squisitamente di cronaca e in altri in forma più narrativa si parla dei lavoratori e non dell’inquinamento, come siamo abituati a sentire o a leggere. Gli invisibili sono appunto i lavoratori, ma invisibili agli occhi di chi? Di Taranto, dei cittadini della città magno greca, presenti soltanto ai funerali di qualche operaio conosciuto in vita.
La forza di questo libro l’ho scovata nelle testimonianze di un vecchio metalmezzadro (termine degli anni Settanta coniato da Walter Tobagi per individuare la caratteristica dei metalmeccanici tarantini: la dualità fabbrica e campagna , il quale con la semplicità che è propria di un uomo che ha lavorato la terra predice a Fulvio Colucci quale sarà il futuro degli operai: tornare alla campagna. Quest'ultima, appunto, come luogo fisico della fuga verso la sicurezza economica offerta dalla fabbrica e sempre la campagna come luogo della fuga dalla fabbrica questa volta, dai suoi assordanti rumori, dai pericoli del lavoro, dall'alienazione. Gli operai però sono cambiati e negli anni anche gli argomenti di discussione tra di loro sono mutati: le lotte operaie, per ottenere migliori condizioni sul posto di lavoro ma anche fuori dalla fabbrica, hanno lasciato terreno a sogni meno ideali e più materiali. Il calcio e la tv con i loro protagonisti riempiono i dialoghi tra operai e anche il tempo libero rubato alla discussione politica politica o sindacale, tanto cara ai vecchi metalmezzadri.
Quella classe operaia si è spenta. E in paradiso(come recitava il titolo del film con Gian Maria VolentèLa classe operaia va in paradiso, Ndr) non ci è arrivata mai. Figuriamoci. È stata soppiantata da questi ragazzi, ora qui intorno a me. E io tra loro, in un gioco di specchi che sarebbe piaciuto ad Arthur Schnitzler. Tutti insieme in attesa di smontare il turno”. Così scrive Alemanno di sé e dei suoi colleghi. Andare in fabbrica contando le ore, i minuti per tornare a casa. Vivi. Perché dalla fabbrica tanti sono usciti morti, a causa di incidenti sul lavoro.
“Ma - continua Alemanno nel suo racconto – noi che lavoriamo qua dentro sappiamo bene che la colpa non è solo della fabbrica. Tutti (anch’io) ci comportiamo in modo poco rispettoso delle regole di sicurezza. Questi comportamenti sono frutto di superficialità, di una maledetta ingiustificata fretta indotta, di scarsa concentrazione dovuta al poco riposo e alla sicurezza sciocca data dal fatto che certe azioni si sono ripetute mille e mille volte.”
E poi “ci sono i problemi che vengono da una fabbrica vetusta che ai record di produzione non fa conseguire un rapido rinnovo di mezzi e strutture. (…) Ma lo strazio di un morto sul lavoro è difficilmente spiegabile (...) passato il momento della commozione tutto torna come prima, o almeno così sembrerebbe. Invece così non è perché manca uno di noi. Uno che non tornerà più. Un lavoratore”.
E Alemanno, lo scrittore-operaio, insiste sulla quotidianità del lavoratori dell’Ilva, quando dice che i ragazzi non si impegnano per la gloria dell’azienda o per la soddisfazione dei capi, “ma lo fanno esclusivamente per loro stessi. Per un lavoro sicuro e affidabile che permetterà loro di vivere dignitosamente pur nella consapevolezza di essere tutti i giorni a rischio.”
E tra la fabbrica e l’indifferenza della città ci sono “i bimbi di Taranto che – come scrive Colucci –non hanno fucili, né elmetti (…). Le uniche armi sono i disegni e le parole di un’ingenua, possente, vitalità”. 
“Invisibili – Vivere e morire all’Ilva di Taranto” di Fulvio Colucci e Giuse Alemanno - Edizioni Kurumuny (euro 10,00)


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