mercoledì 31 agosto 2011

La scomparsa del paesaggio nella periferia infinita


Dov’è finita la campagna? A guardarlo dall’alto, il pianeta è ormai una vasta distesa urbanizzata che quando di notte si accende lascia ben poche zone d’ombra. A sorprendere di più, oltre le vaste chiazze luminose che indicano le città, il reticolo di strade, di autostrade, le infrastrutture continue che solcano ogni spazio e che sembrano parte di una gigantesca ragnatela. Il fenomeno, iniziato quarant’anni fa, non accenna proprio a diminuire e la sua insostenibilità è diventata il simbolo forse più forte di un sistema di sviluppo ipertrofico seduto sull’orlo del baratro. Per limitarsi all’Italia, vengono cementificati ogni giorno 161 ettari di terreno, 750mila ettari tra 1995 e 2006, pari a poco meno dell’Umbria, in un paese che dal 1951 al 2001 ha aumentato la superficie urbanizzata del 500 per cento e che, con il rilancio recente del piano casa, sembra voler proseguire nell’opera di consumo del territorio.

Calcoli recenti, presentati qualche anno fa alla Biennale di Venezia curata da Richard Burdett parlano di un inurbamento che, se continuerà con il ritmo presente, nel 2050 vedrà il 75 per cento della popolazione mondiale vivere in città. Insomma, dove andrà a finire la campagna? Di fatto, concettualmente, già non esiste più. Lo suggerisce l’ultimo libro di Vittorio Gregotti, Architettura e postmetropoli (Einaudi, 16 euro). Il quale, spiega come il termine più giusto per parlare di natura è ormai il “paesaggio”, poiché «l’insieme della nostra storia è presa di possesso, invenzione di figura e modificazione della natura così da trasformarla in paesaggio». Ragionamento tanto più corretto che siamo arrivati alla fine di questa “presa di possesso”, al punto da non aver lasciato incontaminato neanche un centimetro quadrato di territorio.
D’altronde, quello in cui viviamo, non è un mondo ovunque artificiale in cui alla dicotomia natura/cultura, città/campagna si è sostituito il binomio centro/periferia? Quelle che una volta erano le zone rurali, non sono forse oggi gli spazi intermedi tra megalopoli sempre più ramificate e interconnesse, centri virtuali di economie altamente meccanizzate e informatizzate, dove si riversano milioni di persone mobilitate da una crescente concentrazione della ricchezza, travalicando le tradizionali frontiere culturali, linguistiche e nazionali? Come afferma Gregotti nel suo pamphlet, questi centri urbani sempre più inquinati, congestionati e invivibili, capaci di offrire sempre meno, ricalcano l’insosenibilità dell’economia finanziarizzata degli ultimi decenni.
Società e culture dove il tempo ha preso il sopravvento sullo spazio, illudendo che lo sradicamento significhi ubiquità virtuale e superamento dei vincoli biologici. Un sistema economico che muove enormi masse di capitali da pochi centri finanziari dove poi fa convergere i prodotti dell’industria delocalizzata senza dare a vedere il lavoro, la fatica e il travaglio sociale di cui sono il risultato. Il centro, cioè, toglie ogni statuto alla periferia, occultandone il ruolo, la funzione produttiva, come si farebbe con un retrobottega. È il prezzo da pagare se si vuole continuare a vendere l’illusione ideologica del denaro che produce denaro, se si vogliono nascondere i meccanismi della speculazione, le conseguenze sociali e ambientali per alimentare l’utopia dello sviluppo e del consumo all’infinito. Questo, secondo Gregotti.
A dispiegare un ragionamento analogo è un altro libro uscito negli stessi giorni di quello di Gregotti: Dalla città sacra alla città secolare di Luciano Pellicani (Rubettino, 22 euro). A dire il vero il volume del sociologo la prende più alla larga, e analizza l’eclisse del divino nelle società occidentali, a partire dalle lontane premesse del XV secolo, per infine tracciare i meccanismi della legittimazione del potere nella “città secolare”. Di fatto, un’emancipazione permessa dall’avanzare della tecnica che ha liberato gli individui, ha diversificato la società, ha fatto svanire gli orizzonti condivisi, favorendo una prodigiosa creatività e un ipertrofia alla lunga, però, insostenibile. Da qui, la rivendicazione del ruolo critico della sociologia all’interno dell’ideologia modernista.
Il rifiuto di ogni riduzione dei rapporti umani a rapporti contrattuali, sapendo che le informazioni stesse che dovrebbero permettere a ciascuno di calcolare con pertinenza il proprio interesse sono invece attraversate da convinzioni arbitrarie, opportunistiche poiché fondate su convenzioni utili alla stabilità sociale.
La denuncia, insomma, che la fede razionalista della modernità poggia su un fondo irrazionale – la fiducia incondizionata nelle capacità degli uomini – e che per questo è destinata a fallire, a esplodere negli squilibri di una devastazione ormai sotto gli occhi di tutti.
In entrambi i casi, la diagnosi appare disperata. E la soluzione? Secondo Gregotti, occorre inserirsi nella contraddizione tra la vocazione effimera di un’urbanizzazione usa e getta e i grandi investimenti che comporta. Insomma, riqualificare la società a partire dall’urbanistica e dall’architettura, ricostruire i legami tra spazio e tempo, tra identità e dimensione locale, restituendo ai cittadini la propria integrità di esseri umani. Ad aiutare questa riscoperta del locale sul globale, le crisi ricorrenti del sistema che dimostrano l’insostenibilità dei suoi assunti fondamentali. C’è da crederci?

Simone Verde, Europaquotidiano.it



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