50 anni di Ilva a Taranto. Ognuno di noi sa un pezzo di quel rotolo di storia lungo 50 anni.
E se proprio non ne dovessimo sapere nulla, basta leggere il giornale o seguire un telegiornale locale per ritrovarcela lì quasi tutti i giorni, a raccontarci di inquinamento, malattie, incidenti sul lavoro, alimenti alla diossina, cassa integrazione. Le immagini he accompagnano queste notizie sono sempre le stesse: ciminiere che buttano fumi di tutti i colori; parchi minerali, è il caso di dire: neri come il carbone; terreni rossastri tutto attorno. Questa è l'immagine di oggi. Nessuno avrebbe immaginato che questa storia, iniziata il 9 luglio 1960 con la fastosa cerimonia della posa della prima pietra dello "Stabilimento di tubi saldati", il primo nucleo del IV centro siderurgico dell'Iri, sarebbe andata così. Quel giorno c'erano tutti a Taranto: ministri, autorità civili, ecclesiastiche, militari. Mancava solo il Presidente della Repubblica, che avrebbe dovuto esserci ma i fatti di Reggio Emilia di due giorni prima e la rivolta scoppiata da nord a sud contro il governo Tambroni, che aveva
portato all'uccisione di 11 persone da parte della polizia, avevano fatto restare a Roma per timore di contestazioni.
Attorno all'arrivo dell'Ilva a Taranto si era creata una attesa messianica. Doveva essere la risposta a tutti problemi occupazionali della città, schiacciata dai licenziamenti che da oltre un decennio si susseguivano in tutte le realtà lavorative e in particolare nei Cantieri navali e nell'Arsenale, che avevano dimezzato la loro forza lavoro.
La disoccupazione era salita alle stelle, l'emigrazione anche, verso l'Italia del nord ma anche verso la Francia, l'Olanda, il Belgio dove le maestranze specializzate dei cantieri riuscivano a sistemarsi.
Quando si cominciò a parlare dell'eventualità di un nuovo centro a ciclo integrale della siderurgia pubblica, che avrebbe dovuto far fronte all'aumento vertiginoso della domanda di acciaio nell'Italia dei consumi di massa - quella del nord perché al sud di massa era la disoccupazione - e della possibilità di impiantarlo al sud perché la politica di sviluppo industriale così voleva, si cominciò a sperare.
Tutte le forze politiche locali, da sinistra a destra, e anche la Chiesa guidata da monsignor Motolese, si batterono perché venisse scelta Taranto, mentre tutti si batterono perché venisse fatto da un'altra parte com'era stato promesso, perché era stato promesso dappertutto. Quando alla fine fu scelta Taranto, ognuno se ne attribuì il merito. In realtà la scelta fu dettata non tanto dalla volontà di risollevare le sorti della
città quanto da mero calcolo tecnico.
Lo stabilimento che si andava a costruire doveva essere il più grande di tutti, seicento ettari di estensione che poi diventano mille e cinquecento, più del doppio della città.
Il progetto iniziale prevedeva già tre altiforni. Piombino, Cornigliano e Bagnoli, i centri siderurgici già esistenti, ne avevano due. Uno stabilimento siderurgico a ciclo integrale, che dalle materie prime arriva al prodotto finito, all'acciaio, può nascere solo a bocca di miniera o sul mare, perché ha bisogno di approvvigionarsi di materie prime, quando non se ne hanno a disposizione in prossimità, e in Italia, dove non ci sono miniere, sono tutti sul mare. Bisognava poter sfruttare le infrastrutture già esistenti di una città abbastanza vicina: porto, strade e ferrovie. Taranto aveva tutto. Aveva anche la cava di calcare necessario per la fusione del minerale e tanta acqua da usare per il raffreddamento degli impianti.
Cominciarono gli espropri dei terreni necessari nella zona prescelta, quella a nord di Taranto. C'erano ottantadue aziende agricole in quell'area, grandi e piccole masserie come La Vaccarelluzza, La Cerasa, La Cerasella, Vigilante, Giangrande, Arco di Belmonte, Capasino e tante altre ancora. I proprietari ricevettero un indennizzo e i fittavoli una promessa di assunzione nel costruendo siderurgico per i maschi della famiglia.
Chi abitava ai Tamburi assiteva alla nascita dello stabilimento. Racconta una signora: «Da casa della mamma si andava sul terrazzo e giorno per giorno si vedeva che buttavano giù queste masserie, radevano al suolo tutti questi alberi di ulivo, vigne… Tanto, dicevamo, è lontano. Chi pensava che ce lo portavano proprio sotto le finestre di casa nostra? Queste macchine così grandi, noi era la prima volta che vedevamo questi camion così enormi, che passavano il primo piano. Quando passavano per la strada, passavano da sotto casa nostra, tremavano le palazzine. Le ruote erano una cosa spaventosa tanto che erano grandi. E facevano va' e vieni, va' e vieni fino a quando hanno distrutto tutta la campagna».
Questa storia è cominciata così.
Antonella De Palma
dal Corriere del Giorno del 10/07/2010
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