venerdì 30 ottobre 2009

Dal 7 dicembre avrà luogo a Copenhagen la 15-esima conferenza ONU sui Cambiamenti Climatici (COP15)



Dal 7 dicembre avrà luogo a Copenhagen la 15-esima conferenza ONU sui Cambiamenti Climatici (COP15, appunto), di certo la più importante per numero di partecipanti, Paesi coinvolti, leaders presenti e per senso dell'urgenza e drammaticità che la circonda.
COP15 è preceduta da sessioni multilaterali di preparazione (Bankog, Barcelona solo per citare le più recenti) ed ha la responsabilità di partire dal palese insuccesso di Kyoto, che rende sempre più scottante e più globale l'agenda ambientale.
Da Obama a Hu Jintao, da Ban Ki- Moon a Lula, da Correa ai leaders delle ONG e delle lobbies globali si confronteranno in una città verde dell'Europa scandinava. Così complessa da avere la bicicletta come mezzo egemone per gli spostamenti urbani e convivere con l'altrettanto danese centrale elettrica a carbone della E.On contro cui i movimenti hanno manifestato anche lo scorso 26 settembre e torneranno a manifestare.
COP15 è un vertice ONU che sta creando un enorme dibattito politico globale, che porta a ragionare sull'agenda ambientale gli indigeni dell'Equador ed i recenti Climate Camps inglesi, i movimenti europei. ma immediatamente anche, e diversamente, i protagonisti delle nuove isole continentali che nell'ultimo decennio hanno fatto la loro potentissima irruzione2 nel già vecchio mondo post-bilaterale.
Non è, insomma, per nulla un dibattito semplice e provinciale, ma, invece, complesso, globale e non scontato.
La partita è talmente importante da poter essere considerata un vero spartiacque, tanto dal punto di vista degli equilibri globali, quanto della gestione della crisi di sistema in corso.
Il dibattito di COP15 rifletterà la necessità del nuovo corso di Obama di trovare un nuovo punto di mediazione nel multeralismo che è seguito al fallimento del bushismo. Forse la nuova divisione internazionale delle quote annuali di CO2 rappresentano la misura del nuovo equilibrio tra il green course dell'amministrazione americana, l'insorgenza produttiva cinese (non bilanciata dal consumo interno), la tumultuosa dinamica sudamericana che vede i più pesanti nuovi esempi nel biocarbunante di Lula e nel petrolio di Chavez.
Alcune players come WWF e Greenpeace, raccolte nella cordata Copenhagen Climate Treaty, hanno già diffuso un'ipotesi di risoluzione che sancisce un'ipotesi di rinegoziazione dello sviluppo, nella quale emerge che la linea di ripartizione si definisce più tra Ovest ed Est, che tra Nord e Sud del mondo.
Beppe Caccia nella video-intervista che pubblichiamo ci fornisce una fondamentale lettura della precarietà nel e del clima ed indaga il connubio strettissimo che si riscontra tra crisi ambientale, processi di accumulazione e rivolte. E soprattutto invita a considerare fino in fondo come questo non sia un tema "ecologico" -cioè riservato e limitato agli ecologisti- ma fino in fondo una prospettiva di critica complessiva della crisi del capitalismo, un piano di lettura generale, e, dall'altra parte, davvero speciale per indagare la composizione politica dei movimenti.
C'è moltissima lotta di classe attorno alle contraddizioni ambientali e viceversa, il comando si determina anche intorno alla governance delle issue climatiche.
Non solo, ma mai come oggi assistiamo alla finanziarizzazione dei beni, delle risorse ambientali, delle materie prime e dei cibi, valga per tutti l'esempio dei futures sui cereali, la cui esplosione dei prezzi ha generato enormi profitti speculativi e rivolte represse nel sangue con un'ampiezza mai vista prima.
O, diversamente, quante volte alla radice dei processi migratori c'è la scelta di sottrarsi e fuggire da territori devastati da un equilibrio mutato o perso?
Insomma, il dibattito va affrontato in forma moderna, nuova, con grande attenzione alla globalità e, quindi, all'eccentricità della prospettive di critica. E soprattutto senza rete, come acrobati del presente.

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